“Vi amo tutti (ma vi odio però)” ovvero dello stile degli autori sui social #editoriale

Confesso un risvolto “non sano” (per risparmiare la definizione di “patologico”) dei miei noiosi pomeriggi seduta dietro a una scrivania: trascorro molte ore lavorando al computer e quando sento il bisogno di una pausa non riesco a staccarmi dallo schermo. Quello schermo, ahimè, diventa l’oggetto della mia pausa e mi ritrovo a rollare la homepage di Facebook, gettando saccadi qua e là. Per caso o per curiosità, mi capita di soffermarmi sulle pagine di scrittori, cantanti, artisti emergenti, commentatori più o meno intelligenti. Si tratta di pagine individuali (numerose sgranate versioni della faccia del personaggio fanno cucù dalla barra spaziatrice orizzontale) e allo stesso tempo collettive: ogni riga è un messaggio ai fan e a volte diventa un vero e proprio dialogo. È un argomento futile – innegabilmente – ma ben so che il principio fondante di questo blog è scherzare sulla letteratura – o su chi la fa, o dice di farla.

Visto che sono una burlona, mi sono chiesta: perché? Cosa spinge Baricco, Saviano e questa giovane autrice di cui ho dimenticato il nome a pubblicare istantanee dei loro retroscena, a rispondere all’augurio di un fan (o meglio, di numero variabile tra 50 e 20000 fan) e a gettare una rete giornaliera dei propri opinioni, sentimenti, gioie e amarezze?

Non dovrebbe stupirmi: il web funziona così. La posta in gioco è la notorietà: per essere condiviso, per far condividere agli altri uno spezzone delle tue idee almeno per un secondo, è necessario indurre un volontario click del mouse. Non ho un’opinione su questo: non è bene e non è male. È una prassi: si fa così. Purtroppo, per deformazione professionale, questa spiegazione non mi lascia soddisfatta.

Per prima cosa, ho provato a immaginare cosa sarebbe accaduto se altri grandi, che prima di esserlo sono stati dei piccoli, infimi esordienti, avessero seguito questa prassi. Ed ecco il primo che mi è venuto in mente:

Anonymous_portrait_miniature_of_a_young_John_Keats

questo è John Keats. Bruttoccio, non è vero? È una fortuna, forse, che la sua faccia non sia stampata su ogni singola copia di Endimione. A lui non deve essere importato molto della propria immagine, vista la scarsità di ritratti che, mi auguro, non gli rendano giustizia e che sembrano essere stati eseguiti più per passare il tempo (vedi quello schizzato dall’amico Charles Brown) che per una volontà di immetterli in circolazione. Il poveretto, in vita, non ha goduto nemmeno dell’approvazione e del sostegno del pubblico: una prima pubblicazione tiepida, un solo grande amore (una ragazzina che sembrava essere l’unica a capirlo), un disastroso epilogo, la povertà, la morte. Per assurdo, sul social gli sarebbe andata meglio? Con quella faccia, non credo. E se anche gli fosse andata, forse avrebbe perso quella venatura intatta di malinconia, quella precisa abilità nel cristallizzare la caduca felicità e la bellezza in un susseguirsi di parole.

Questo ragionamento non mi ha comunque portato a niente: non si può dire che tutti gli autori che utilizzano i social siano belli e che pubblicizzino la propria immagine in quanto tale. E allora?

Ho letto una frase che mi ha illuminata:

“Poter pubblicare da sola (…) mi ha messo a stretto contatto con i miei lettori, in un modo che non credevo possibile. (…)auto-pubblicare significava poter credere in me stessa e portare avanti i miei progetti, scrivendo il genere di libri che i miei lettori amano.“

Potete leggere l’intervista completa a Bella Andre a questo indirizzo. La signora è una scrittrice americana di saghe familiari d’amore, amore e amore, già affermata e che ha scoperto il mondo del self-publishing. La sua pagina Facebook assomiglia a quelle di molti altri autori: domande dirette, ringraziamenti, qualche vignetta e pubblicità (autogena). La signora Andre ha fornito la risposta perfetta alla mia domanda: perché lo fanno? Non c’è dubbio: questo è il massimo grado di vicinanza con i lettori.

Quando leggo una poesia di Keats, non posso dire di sentirmi vicina a Keats. Mi sento vicina alla sua poesia, a me stessa, al mio comodino, ma lui, per quanto ci si possa sforzare, non si manifesta.

Quando invece sulla mia homepage appare un post firmato e controfirmato (da una selfie) di Roberto Saviano, io mi sento vicina a Roberto Saviano – e a nessuno dei suoi libri, visto che non ne ho letto nemmeno uno.

Sembra così bello: autori e lettori vicini, occhi negli occhi, che dialogano. Quella distanza incolmabile che ci separa da Goethe e da… (vorrei evitare di elencare altri autori defunti, ma è impossibile, perché quasi tutti gli autori attualmente viventi che conosco hanno una pagina su un social) è roba per chi cerca sensazioni forti e antiche.

Perché lo fanno? Loro scrivono di volerci bene e che siamo importanti. Certo che lo siamo: siamo i loro fan, i loro possibili compratori. Ecco perché lo fanno.

È tutto molto triste. È come un macigno – quella stramaledetta economia, che si infila sempre in ogni discorso per rovinarlo e renderlo amaro.

Così si è concluso il mio volo pindarico sugli autori nell’epoca dell’iper-riproducibilità delle immagini: si tratta di zuccherosa operazione di mercato. L’operazione di bravi autori come Baricco, Saviano, Ken Follett e Bella Andre: ci danno uno spazio per scrivere un commentino, ci fanno vedere la loro faccia da un’inquadratura strana e con una grana oscena e vogliono che compriamo il loro libro, compriamo il loro libro, compriamo il loro libro. Perché questo, in fondo, è quello che ogni autore vuole.
E visto che è ormai così difficile, diventa un pochino più facile se noi li amiamo e loro sanno il genere di libro che noi amiamo. Non mi permetto di affermare che non vada bene, ma è bello concludere una giornata dando a persone famose dei filistei.

Un sarcofago filisteo

Un sarcofago filisteo

 

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