Leggeteli!

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By She

Da quando esiste il libro, la lettura ha qualcosa di sfrontata intimo e personale – calarsi dall’altra parte della copertina è un’evasione, un celarsi dal proprio simile – chi potrebbe dire cosa sto pensando, di quel libro che ho fra le mani?

La lettura ha avuto, nella storia, un ruolo eversivo di cui celebri esempi fanno ormai parte della memoria collettiva: i roghi di libri, l’indice dei libri proibiti, l’eresia della traduzione nella lingua comune, la riprovazione per la donna che legge e via dicendo. Ma che cosa vuol dire, oggi, nella nostra cerchia di paesi liberi, leggere per sovvertire? E’ ancora possibile leggere e combattere, oppure il triangolo vuoto tra le pagine aperte, in cui infiliamo il naso, non è altro che un antidoto per dimenticare le rogne quotidiane?

Certo, non c’è da essere retorici: leggere è prima di tutto un passatempo che ha nella sua piacevolezza la sua forza – chi rifiuterebbe un buon libro? Tuttavia, può capitare di gustare il senso del proibito e sentire di star rimuovendo un mattone da un muro che va ben oltre di noi, soltanto con la forza del pensiero?

No, non sto pensando a Cinquanta Sfumature di Gigio.

Nella mia più recente esperienza, mi sono sentita spinta a leggere libri di autori musulmani (o originari di paesi di tradizione musulmana). Il motivo, forse, lo potrete intuire, visti gli avvenimenti che hanno drammaticamente avvicinato i nostri due mondi. Mondi che, geograficamente parlando, sono ridicolmente vicini… ed è incredibile che ci sia voluta l’onda dei migranti per spiazzarci come birilli. Nel gran caos degli ultimi mesi, ho sentito invocare a qualcuno quei musulmani moderati che dovrebbero ergersi per presentare l’alternativa ai loro orrorifici alter ego. Anche se ben lungi dal costituire una soluzione efficace al conflitto, queste persone esistono e non lo affermo in quanto simpatizzante, buonista-pacifista o bastian contraria. Mi piace leggere romanzi, tutto qua, romanzi belli. E se soffro per chi soffre, mi accorgo di avere una sottile paura su un treno affollato e non capisco cosa sta succedendo e perché, invece che spulciare gli editoriali e seguire i dibattiti politici preferisco leggere lentamente un libro.

Da settembre a ora (l’avevo detto che sono lenta!) ho letto Il mio nome è Rosso di Orhan Pamuk, bestseller turco e vincitore del premio Nobel per la letteratura, e I figli della mezzanotte di Salman Rushdie, scrittore indiano di fama internazionale.

Orhan Pamuk

Salman Rushdie

 

 

 

 

 

 

 

In questi libri non si trova una “riabilitazione” delle culture e dei popoli musulmani ma la bella realtà delle persone, delle storie, dei conflitti. Si scoprono nuove parole e modi di salutare, un modo di far parlare i colori e confondere il tempo che non conoscevo. Nuovi – sconosciuti – modi di soffrire, affrontare la famiglia, il matrimonio. Oltre alle diversità (che affascinano) si intravede qualcosa di molto importante: la lotta di questi scrittori, il patto fatto con i lettori di dire la verità ed arrivare fino in fondo. E’ la spina dorsale della letteratura che, a quanto pare, non conosce etnia o religione.

 

Libro Generazionale Cercasi

Forse perché disto un ‘-3′ dalla soglia dei trent’anni (o forse perchè da una vita mi guardo allo specchio con preoccupazione), ultimamente mi sono chiesta se esista un libro che rappresenti la generazione nata tra la metà degli anni ottanta ed i primi anni duemila.

Diciamocelo, è arduo rappresentarci tutti, visto che negli ultimi trent’anni il mondo – i mezzi di comunicazione, la geopolitica, la moda, la moneta, le relazioni – è andato incontro ad una metamorfosi che avremmo bisogno, forse, di riguardare in slow-motion.

La nostra vita quotidiana è piena zeppa di elementi ormai irrinunciabili o inevitabili (i social-network, gli acquisti online, i voli low-cost, le relazioni a distanza, i mobili di ikea) che tuttavia mancano ancora di una rappresentazione, almeno nella mia esperienza di lettrice. Ciò che costella la nostra vita non è ancora diventato un elemento narrativo, lasciandomi a volte la sensazione che questa letteratura scritta “dai padri e dalle madri” – sì, perché sappiamo bene che il mondo dell’editoria ha aderito al blocco delle assunzioni – viva questi elementi come innaturali ed un po’ vuoti.

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Visto che l’assenza del montalatte ikea Produkt potrebbe essere dovuta alla sua sostanziale irrilevanza, possiamo considerare anche i “grandi” eventi del nostro tempo: ho la sensazione che gli eventi che ancora ci emozionano, commuovono e fanno pensare risalgano ad un’epoca nella quale non eravamo nati o non possiamo ricordare. Quanti chili di carta si scrivono ancora sulla caduta del Muro di Berlino, e quante trame invece ritraggono l’11 settembre? O l’attentato alla metropolitana di Londra? O il maremoto in Indonesia?

Mi è stato suggerito di cercare in altre forme di racconto, “più inconsce”, che rivelano un tema più nascostamente, come i film o le serie tv (ed i video-game, aggiungerei). Credo in effetti che potremmo enumerare molti film o serie che ci rappresentano, indipendentemente dal loro successo. Ma in quanto a libri… è davvero possibile che ci sia questo vuoto?

Ho cominciato a porre la domanda ad amici e conoscenti ed eccoci qui: lo chiedo a chi legge. Qual è, secondo voi, giovani adulti tra i 18 ed i 30 anni, il libro che abbiamo letto più o meno tutti e che rappresenta qualcosa che ci accomuna e fa parte della nostra identità?

Ho incluso nel sondaggio alcuni titoli che mi sono stati suggeriti dagli amici. Ognuno ha proposto liberamente con il primo titolo che gli è capitato in mente. Se conoscete un libro che secondo voi è trasversale e anche molto letto, aggiungetelo alla lista e commentate!

Grazie e a presto 🙂

She

“Caro Bogart” di Jonathan Coe #recensione

“Caro Bogart” di Jonathan Coe #recensione

 

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By She

Si va a trovare il nonno e si finisce per portare a casa dei libri, come se uno non ne avesse abbastanza a casa propria.

Edizioni economiche con illustrazioni di copertina in stile Roy Lichtenstein e volantini pubblicitari di eventi datati estate 1977 come segnalibri dimenticati a parte, si scova un titolo super-universale e super-economico (così si chiama la collana) uscito nel 2004 per la Feltrinelli –  i tempi corrono e il mercato si allontana dall’immagine in salotto: a quanto vedo dal sito, ha già cambiato copertina.

L’autore è Jonathan Coe (La famiglia Winshaw, La banda dei brocchi), biografo, in questo caso, di un personaggio. La storia di Humprey Bogart non potrebbe essere raccontata meglio da Coe della biografia inventata di un personaggio fittizio.

Tempo di lettura: un pomeriggio.

E’ breve, ma per quanto Bogart “Bogey” fosse attore la spinta maggiore che si prova, anche solo a conoscerlo ricordato, è di mettersi nei suoi panni.

Scoprendo il suo debutto disordinato, le collaborazioni mal digerite e i vizi capitali di Bogey, non posso far altro che chiedermi: “Come è possibile che Casablanca sia uno dei film più famosi della storia e che io stessa lo abbia apprezzato senza sospettare che la buona riuscita fu dovuta soprattutto alla fortuna?”

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Una ragionevole dose di pericolo fa bene alla salute. (cit. Sam Spade – Humphrey Bogart ne “Il Mistero del Falco”)

A dare ascolto a Coe, la Hollywood degli anni ’30 e ’40 era un ammasso di scrittori, registi, attori che si aggiravano in un mondo per noi inimmaginabile. Per trent’anni, l’immaginario collettivo sembra essere stato plasmato da sceneggiatori che potevano abbandonare baracca e burattini a pochi giorni dalle riprese, registi e collaboratori abituati esperti nella tecnica patchwork, tanto che a volte l’insuccesso del film era attribuibile alla sua incomprensibilità. Produttori ed artisti che confondevano “il farabutto” sullo schermo con l’attore alcolizzato e in cerca di lavoro che lo interpretava.

Cosa ha reso Bogey un divo? Dietro alla spessa coltre costituita da lui stesso, si intravede la sua bravura, sensibilità, tenacia. Forse, l’insofferenza per le leggi del mercato, che lo resero uno stoico o un cinico piuttosto che un ribelle. Proprio come per i personaggi di fantasia, bisogna scavare tra le righe per incontrare Bogart l’attore: lui stesso, con i suoi tic, la faccia segnata e la stempiatura, è un ruolo abnorme e la sua più grande interpretazione.

Guardando Casablanca o il Mistero Del Falco, non si ha l’impressione di entrare in contatto con Rick o con Sam Spade, ma che Bogart abbia colmato il vuoto lasciato da questi personaggi di fantasia con se stesso e faccia del suo meglio per mostrarci “cosa avrebbe fatto Bogart se fosse stato Rick”.

Bogart è un personaggio fuori dal comune, fatto di immagini, suono ed immaginazione – grazie a Coe, anche di parole, infine.

Malgrado gli anni ’40, con i loro bianchi e noir, siano andati da un pezzo, Bogey ritorna e noi lo conosciamo bene, non solo grazie ai classici in dvd ma a (re)interpretazioni e (ri)visitazioni. Il Bogart amico immaginario di Woody Allen in Provaci ancora, Sam è proprio lo stesso Bogart che indossa lo smoking spezzato al club Rick’s.

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Se ti va bene, uscirai di prigione fra vent’anni, e allora potrai cercarmi di nuovo. Sempre che non decidano di stringere il tuo grazioso collo con un cappio… Sì, tesoro, ti faccio andare in vacanza. Avrai qualche speranza di salvare la vita: il che vuoi dire che se fai la brava ci rivedremo più o meno tra una ventina d’anni. Se invece t’impiccano, ti ricorderò per sempre. – cit. “Il Mistero del Falco”

Una curiosità: una farsa imperdibile di Humphrey e della moglie Lauren Bacall risale alla fine degli anni ’40. Nel cartone animato “Click Hare” (1947), parodia di un esclusivo club di Los Angeles e dei suoi frequentatori, in cui Bogart ordina per cena coniglio e viene in cambio beffato da Bugs Bunny.

“Bacall to Arms” (1946) è invece una parodia del primo film che vide Bogart e la Bacall insieme, “To have and have not” del ’44.

A conclusione, non posso non ricordare la profondissima ordinazione di Bogey del calzone tonno e funghi:

Fare ricerca: roba da poeti! #noialtri

Fare ricerca: roba da poeti! #noialtri

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by She

SPOILER ALERT: In questo articolo non si tiene conto di ruoli standard e socialmente accettati – perdete la speranza o voi che leggete! (E fatevi una risata…)

Mi è capitato di concedermi la visione di una serie BBC il cui titolo è tutto un programma – Desperate Romantics – ficton ad alti contenuti romanzati sulla lega dei pittori preraffaeliti andata in onda su Laeffe.

Sono troppo sexy...

Sono troppo sexy…

Sento che potrebbe far storcere il naso agli esperti e ai veri Appassionati, quelli con la A maiuscola: Aiden Turner è un po’ troppo palestrato per il ruolo di Gabriel Rossetti, come lo era anche per il ruolo del nano belloccio ne Lo Hobbit (un bello che si trova sempre nel ruolo sbagliato al momento sbagliato, a quanto pare). Ma non vogliamo concederci una divertente, farsesca rappresentazione di una confraternita di pittori rivoluzionari di due secoli fa?Eppure, la mia vena carnevelesca non era abbastanza per spiegare il mio coinvolgimento: c’era qualcosa che mi faceva sentire estremamente solidale.

Ripercorro le immagini, come se le stessi ricordando: tre giovani che sfidano la teoria consolidata della pittura perché credono nel progresso dell’arte, l’amicizia che ci intreccia al lavoro, le sbicchierate per celebrare conquiste futili e consolarsi di tutto il resto, mangiare poco e rinunciare al riscaldamento (senza perdere il buon umore), dipendere, per la propria carriera, dall’approvazione di un mentore e dalla risonanza del pubblico. Infine, la mostra: i quadri dei giovani appesi alla parete, di fronte ai quali passeggiano vecchi accademici e critici parzialissimi che sono assai scettici che questi sbarbatelli che pensano solo a fare sesso possano mettere a frutto il loro talento, sempre che lo abbiano! L’ho vista e l’ho riconosciuta: questa non è una mostra, è una fiera della scienza.

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Ecco un’affollata poster session

Mi sono chiesta: nel nostro mondo, quello dei social e del self publishing, chi è che vive ancora nella condizione di “pubblicare o perire”? La risposta è “i ricercatori”.

Gli scienziati e i ricercatori annegano in un mare di letteratura e devono avere doti di scrittura notevoli – quando gli si richiede un articolo breve, si chiedono 6000-7000 parole.

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“Il bando per la presentazione del progetto scade tra 5 minuti”

“Se vuoi provare a te stesso di essere capace di essere uno scrittore, mettiti di fronte al computer una notte e scrivi 20000 caratteri” – non è un citazione letterale, ma è stato Ian McEwan a dirlo.

Oltre alla scrittura, alla pubblicazione e alla spada di Damocle dei revisionatori e degli accademici, lo stile di vita del ricercatore è di sicuro disperatamente romantico: può ingerire litri di birra in un fine settimana, migrare verso un ateneo che dista come minimo 300 chilometri da casa e dalla più vicina conoscenza, non ha fissa dimora, continua a cercare strenuamente di consolidare la propria posizione fino ai 35-40 anni e fa economia sul cibo.

I ricercatori non sono solo scienziati (come se gli scienziati fossero tutti uguali poi: provate a mettere in una stanza un ricercatore di ingegneria e uno di etologia – ne può venir fuori un trattato, un figlio o un tentato omicidio), ci sono anche umanisti di ogni specie, dall’egittologia, all’anglistica, alla teologia, alla storia dell’arte. All’interno di ogni disciplina, infinite correnti e tipi umani, contrattazioni e convivenze, soprattutto scrivanie disordinate e cassetti in cui si dimenticano spazzolini, cartoline, caramelle – non è romantico?

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Abbiamo ottenuto il finanziamento europeo… NO.

Inoltre, se vi capita di andare a perlustrare le mansarde parigine e londinesi, affittate a caro prezzo ed in pessimi quartieri, alla ricerca dell’artista dei vostri sogni… ricordate di chiedere al coinquilino cosa fa nella vita. Se non fa il cameriere per imparare la lingua, è probabile che sia un ricercatore.

Anche la caratterizzazione “negativa” che una volta si affibbiava allo scrittore di poesie che rinunciava a portare avanti l’impresa di famiglia e al pittore che sceglieva di ritrarre prostitute è stata ereditata da questa manciata di avventurieri: puerili, illusi, sanguisughe, snob. Quando poi il ricercatore è donna il ritornello dei luoghi comuni potrebbe essere facilmente scambiato per quello che, centinaia di anni fa, si deve essere sorbita Jane Austen: “Ma non pensi a farti una famiglia? Deve aver scelto di lavorare con il cervello perché è orribile! E’ inutile che si lamenti dei ritmi… si è scelta un lavoro da uomo!” per poi arrivare in gloria alle famose battute sulle lacrime.

Non ho dubbi: potrei avere una conversazione con Gabriel Rossetti o John Keats sui fastidi della vita da libera pensatrice, progressista ed artist… ahem, ricercatrice scientifica.

Fantasticando sui miei eroi della sera, sono giunta alla conclusione di non essere poi così strana e che in fondo lo sconcerto dei miei parenti di fronte alla mia scelta di vita non è niente di nuovo nella storia delle scelte professionali.

Perché ho scelto di fare ricerca? Principalmente per lo stesso motivo per cui ho scelto di studiare Medicina. E per lo stesso motivo per cui amo la letteratura sopra ogni cosa. Un errore dopo l’altro, e uno più radicale dell’altro. Ma d’altronde, non è sempre stata così priva di logica, all’apparenza, la vita di chi non riesce a fare a meno di seguire la poesia? Tutto torna. E’ folle e disperatamente romantico.

"E questo è solo il primo anno di dottorato..."

“E questo è solo il primo anno di dottorato…”

La Resistenza

La Resistenza

Cara nonna, sono una bambocciona.
La tua bambocciona, quella che ti chiedeva di ripetere quella poesia che mi avevi insegnato – di Pascoli, che parlava di una rondine e di un uomo che non tornarono mai al nido dove li attendevano.
Te lo chiedevo, senza capire perché la sapevi così bene. Buon 25 Aprile.


Marzia aveva vissuto un solo grande spostamento nella sua vita. Camminando, contava i passi del secondo. Le dita premevano all’interno delle punte delle scarpe leggere, strette nella stoffa, come sassolini. Procedeva meccanicamente, con le braccia dietro alla schiena, dondolandosi e a testa china. Le erano passate accanto un po’ di persone, qualcuno con i bambini sulle spalle e molte sporte, un carretto trainato da un asino, perfino un cavallo e una bicicletta. Non alzava la testa per guardare nessuno: rivolgeva l’attenzione alle scarpette basse di tela nera, che impolverandosi stavano diventando grigie e chiare. Procedevano lentamente, occupando metà della strada. Il fratellino di Marzia falciava la strada con le gambe lunghe e magre, aprendo e chiudendo le ginocchia minuscolo come una forbice. Marzia gli dava il passo, aprendo la fila, e lui non si azzardava a non seguire la linea che ella tracciava sulla strada biancastra.

La testa della ragazza scottava: i capelli neri e raccolti sulla nuca assorbivano la luce ed il sudore. Una volta a casa, li avrebbe tagliati. Aveva un faccia piccola, con minuscole sopracciglia, naso e bocca, soltanto gli occhi erano grandi. Le guance rotonde le davano un’aria allegra e furba, di quelle che vedi raffigurate sui cartelloni pubblicitari, accanto ai biscotti.

Dietro a Marzia ed Emilio, tutte donne seguivano, a parte un vecchio, che sedeva rigido e con il bastone in mano sul carretto. Sul carro stavano molte cose, scatole, pentole, coperte, fagotti e un grande armadio. Quello che aveva sistemato l’armadio per loro aveva fornito anche il carretto, aveva predisposto tutto. Avrebbe potuto accompagnarle, tuttavia non lo aveva chiesto, perché conosceva quelle donne e sapeva della loro fierezza.

Tutto il gruppo era in silenzio. Soltanto a volte, Emilio ed il vecchio sospiravano, ma senza farsi eco, più con l’aria di chi non sa proprio che fare.

Settembre era al termine e tutt’intorno nella campagna si cominciavano a vedere macchie gialle e rosse. Le viti diventavano scure ma l’aria del pomeriggio era ancora calda.

Ecco un altro che passa in bicicletta: sfrecciò accanto a Marzia scampanellando e lei incrociò le braccia. L’aria che si lasciò dietro le trasmise un senso di vuoto. Cercò di pensare a qualcosa: alle elementari non le avevano insegnato una poesia o una filastrocca per ogni mese?

Recitò, a voce bassa: Settembre, andiamo. È tempo di migrare.

Ripeté la prima frase, prima che la seconda le tornasse alla mente. Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori lascian gli stazzi e vanno verso il mare.

La sua voce si fece roca e non continuò. Stavano andando verso il mare: prima di andare sulle colline, non si era mai resa conto della distanza. Poi lo aveva visto dall’alto e da lontano come un muro dipinto . Le barche, insignificanti, si muovevano lentamente senza ondeggiare. Quanto potevano essersi allontanati dal mare? Eppure sentiva come se si fossero addentrati in una zona proibita, senza ritorno, e che il mare si trovasse al di là del confine dell’immaginazione. Marzia si voltò a guardarli: Emilio, il nonno seduto sul carretto, sua moglie, sua figlia, la nuora, che era la madre di Marzia, e la zia. Vanno verso il mare. Andiamo verso il mare.

La zia agitò una mano, visto che Marzia si era voltata. Emilio corse verso di lei, saltando. La zia gli disse qualcosa ed allungò il passo. Dopo pochi istanti, Emilio fu di fianco e Marzia e le disse di aspettare la zia. Marzia si fermò, mentre il fratello zompava da un sasso all’altro poco più avanti, allargando le braccia. La zia strinse leggermente il braccio di Marzia e la sospinse, guardando in avanti.

Era una donna alta e secca, ma muscolosa. Non sapendo che cosa dirle, le recitò quel verso, quello che non riusciva più a togliersi dalla mente. La zia Viviana annuì, stringendo le labbra.

“Sì, è proprio così. Torniamo, e ci sarà un bel lavoro da fare.”

Portava le maniche arrotolate attorno ai gomiti. Le braccia erano forti come le gambe bianche. Sembrava pronta a mettersi a lavorare da un momento all’altro.

“Zia, devo essere contenta?”

Viviana non rispose, come se ci stesse pensando. Poi la guardò, aprì la bocca ed assunse quell’espressione di sorpresa, mista a divertimento, che usava invece di esclamare a voce alta.

“Prima che tu nascessi, ci fu un grande incendio in città. Ogni cosa andò distrutta, lo sai, a quel tempo avevamo costruito tutto di legno. Era più comodo, potevamo smontare e sostituire i pavimenti e le pareti a nostro piacimento. I ristoranti ed i caffè cambiavano forma ad ogni estate, fino a che non bruciò tutto. Il giorno seguente, si vedeva bene il mare dal viale, come se non ci fosse stato mai niente tra la spiaggia e le nostre case. Era molto bello, ma nessuno era felice. Tuttavia, quando ricostruimmo e riprendemmo a lavorare, fummo felici di nuovo. Ci piacque, il passato era passato.”

“Ci sarà ancora la nostra casa, e il bagno? E il bar?”

“Penso di sì. Ci sarà da fare un bel lavoro, ma presto sarà tutto pulito e funzionante. Non vedo l’ora di entrare in casa e mettere seduti il nonno e la nonna. Così voi giovani sarete liberi di mettere a posto quello che c’è da mettere a posto.”

“Ma come faremo a sapere che cosa dobbiamo fare?”

“Tutto sarà diverso Marzia, ma quello che abbiamo ci basterà per andare avanti. Dovrai soltanto aiutare tua mamma e tua zia. E riprendere a studiare, quando sarà il momento. Non ti devi preoccupare d’altro. Non ci saranno più bombe né allarmi aerei. Non ci saranno più tedeschi.”

L’ultima parola la disse piano. Forse si era pentita di averla pronunciata. Marzia ce la ebbe con lei per quel suo aspetto forte e sano, quasi sereno. Avrebbe voluto che piangesse, si lamentasse. Aveva pianto tanto e sapeva che quella era la cosa giusta, che la avrebbe fatta sentir meglio.

“Non ci sarà più il papà.”

Parlò come una macchina, una parola per ogni passo. Viviana tolse la mano da lei ed annodò le dita. Marzia vide che sudava.

“Non ci sarà più il papà, e nemmeno Antonio, il tuo nipote preferito.”

Avrebbe voluto piangere e sentirsi affranta, ma si sentì soltanto crudele. Viviana si massaggiò i capelli sulle tempie e quelli si appiccicarono alla pelle.

Erano arrivati ad un incrocio. Emilio si fermò per far passare una camionetta, che passò di fronte a loro lentamente. Dietro, seguivano alcuni soldati americani, seguiti da prigionieri scortati da altri. I prigionieri tedeschi erano in camicia, pantaloni e cintura. Camminavano uno dietro l’altro senza guardarsi, senza muovere le braccia ma con le teste pesanti che ondeggiavano. Emilio mimò una marcia rimanendo fermo ed indirizzò un plateale saluto militare all’intera colonna.

In quel momento Marzia e Viviana udirono un grido provenire dalle loro spalle.

“Porci, canaglie!”

Si voltarono e videro la vecchia, la madre di Viviana, che correva con le mani in avanti, chiuse a pugno, e urlava a squarcia gola. Si fermarono e la guardarono mentre le superava. La donna si fermò e raccolse un sasso, lo scagliò a poca distanza con un grido. Emilio si tolse dalla strada e si accovacciò sull’erba, abbracciandosi le gambe.

La vecchia riprese a correre, mentre le altre donne, quelle che erano rimaste al carretto, cominciavano a chiamarla. La donna si fermò a poca distanza dalla colonna di soldati e agitò le braccia verso i prigionieri.

“Canaglie, maledetti! Assassini! Siete stati voi! Mio figlio! E il mio Antonino! Porci assassini!”

I prigionieri e i soldati non si fermarono, qualcuno di loro le tirò un’occhiata. La donna prese due sassi in entrambe le mani e li scagliò in avanti. Uno piombò accanto al piede di un prigioniero, che si sbilanciò un poco e continuò a camminare.

Marzia era rimasta impietrita e Viviana si animò soltanto quando le altre donne le furono accanto, allora corsero tutte insieme verso la vecchia. Le impedirono di prendere altri sassi e cercarono di riportarla indietro, ma quella si divincolava.

Marzia si voltò verso il carretto, dove era rimasto soltanto il nonno, e corse verso di quello. Lo aggirò e salì sopra, accanto all’armadio. I suoi occhi non potevano staccarsi da quello: lì stavano, suo padre e suo cugino Antonino, nell’armadio. Suo padre aveva una pallottola nella schiena, suo cugino più colpi in corpo. I tedeschi avevano detto agli uomini di allontanarsi, che erano stati liberati. Tutti si erano voltati per andarsene, Antonino era corso via come un cavallo, così era stato colpito alla gamba ed era rimasto a terra sanguinante. Avevano dovuto finirlo, tra gli ulivi.

Marzia sentì il pianto del nonno ma non ci badò. Le donne gridavano, avanti, ma lei rimase fissa a guardare l’armadio, fino a quando non udì una voce sconosciuta che la chiamava.

Un uomo stava presso il carro e le chiedeva se andava tutto bene. Poi posò una mano sul ginocchio del vecchio e gli disse di farsi coraggio. Marzia si accorse che molta gente si era raccolta attorno alle sue zie, a sua madre e a sua nonna. Tutti cercavano di calmarle: c’era qualcuno del vicinato, qualcuno che aveva un banco al mercato, qualcun altro che veniva sempre al bar o salutava per strada. Di fianco al carro si erano fermati perfino due americani.

Chiesero all’uomo cosa era successo, e lui gli disse che quelle donne tornavano a casa con due morti, che erano stati fucilati pochi giorni prima per un rastrellamento. Marzia riconobbe una bestemmia sibilata in un’altra lingua, che rimbalzava tra gli americani.

I due alzarono il capo verso di lei: se ne stava in piedi accanto all’armadio, impietrita.

Loro la guardarono tristemente, quindi aprirono la borsa e misero alcune cose nel carro, di fronte a Marzia: un pacchetto di sigarette, una tavoletta di cioccolato, una scatoletta di alluminio.

Uno dei due indicò Marzia, poi le donne poco lontane.

“Eroi. Italiani eroi. Papà eroe.”

Marzia scosse il capo: che confusione. Italiani canaglia. Italiani eroi. Stava male perché nella confusione e nella sofferenza si sentiva incrollabile. Ora e sempre.


Il 4 settembre 1944, 45 persone furono uccise dai Nazisti a Camaiore (Lucca, Toscana), 35 in località Pioppeti e 10 in località Pieve (o Rosi). Tra queste, vi erano il padre di mia nonna, di 42 anni, e suo cugino, di 16. Camaiore fu liberata il 17 settembre 1944.

La Grande Guerra e noialtri #editoriale

La Grande Guerra e noialtri #editoriale

Non sono persona da citazioni – e nemmeno da commemorazioni. Quando mi capita di citare, chiacchierando, virgoletto, faccio così con le dita, come a voler esorcizzare quell’altro attraverso il quale mi sto esprimendo. Le commemorazioni: fosse per me le virgoletterei.

Virgoletterei le bandiere, le fotografie, i volti, come faccio con la frase di quell’artista che ora io cito, virgolettandola: “ceci n’è pas une pipe”.

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Nel 2015, agli infissi sono apparsi gli stendardi grigi-guernica e verde-militare su cui campeggiano le cifre: 1915-2015. Cento anni sono passati dalla Grande Guerra, altresì detta Prima Guerra Mondiale, guerra di trincea, guerra fratricida, guerra di montagna.

Cento anni sono un’infinità, anche se confrontando la data a quella di eventi che percepiamo come più vicini a noi, ci dovremmo sorprendere del divario tra la guerra e questi ultimi: quindici anni dopo ci fu la prima grande crisi economica mondiale, ventiquattro anni dopo Hitler invase la Polonia, trent’anni dopo gli americani lanciarono la bomba atomica su due città Giapponesi, quarant’anni dopo i Beatles erano un fenomeno musicale mondiale. La cosa strana è che la Belle Epoque, con i suoi ricordi luccicanti e le illustrazioni dei Café Chantant, appare in qualche modo più facile da immaginare, rispetto a questa guerra di fango che di fatto pose fine al benessere di quegli anni che ispirano i nostri abiti di Carnevale.

Tutti conoscono gli schieramenti che si scontrarono durante la seconda guerra mondiale: tedeschi, italiani e giapponesi contro americani, inglesi e russi. Quale cinefilo, potrebbe perfino conoscere i fatti dell’invasione giapponese della Cina, per il film di Bertolucci, mentre gli scontri nell’Oceano Pacifico tra americani e giapponesi sono conosciuti da tutti quelli che hanno visto uno dei due film che di svolgono nell’isola di Iwo Jima.

Non si può dire la stessa cosa della prima guerra mondiale: se perfino il dittatore Mussolini è difficile da collocare sulla linea di tempo per un italiano, figuriamoci il Kaiser Franz Josef – il marito di Sissi. Chi stava con chi? I tedeschi con chi erano alleati? E gli inglesi entrarono mai in guerra? Ma la Russia?

Devo ammettere di conservare pochi ricordi: la prima guerra mondiale confonde i professori. L’unica informazione che ho davvero acquisito a quell’epoca, è stato che la carica della cavalleria ed il tipo di combattimento che era stato usato per secoli passò di moda. Così, la trincea.

Le celebrazioni e le commemorazioni sono servite a poco. Il nonno di mio nonno fu soldato durante la prima guerra mondiale ma non avrei saputo indovinare su quale fronte (neppure lontanamente) se non fino a circa due anni fa.

Quando ho deciso di leggere qualcosa sulla prima guerra mondiale, sono partita con l’autore sbagliato. La mia lettura di “Viaggio al termine della notte” di Celine non ha superato le trenta pagine. Non ho cavato niente da quello stile infranto, quelle frasi spolpate, se non un grande dispiacere.

In seguito sono approdata a Joseph Roth – alla Marcia di Radeskij e alla Tomba dei Cappuccini – e quello che ho scoperto è un altro mondo. Un mondo reale fatto di persone diverse da me e da quelli che hanno vissuto negli ultimi cento anni. I giovani di Roth si infrangono sul fronte della Grande Guerra, tornano a casa e non ritrovano quei valori, quelle regole ed istituzioni nelle quali erano nati. La politica, il razzismo, il commercio diventano triviali ed incontrollabili. I nobili di Roth sono completamente sprovveduti e disattenti: non sanno pensare, spendere, amministrare e stringere rapporti di intimità.

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La loro istituzione non serve più ed essi si estinguono senza alcuna poesia. Le città, mutate di aspetto, non offrono appiglio ai giovani che si ritrovano bastardi in una terra che è diventata indifferente: il calderone etnico dell’impero Austro-Ungarico si è disciolto e una geografia millenaria ha cessato semplicemente di esistere. Roth e la sua coscienza, disorientata, scrive per le strade di un’Europa la cui repentina modernità schiaccia coloro che erano andati alla guerra per il volere di uomini e stati che non sono più niente.

L’etichetta di tragedia è più esplicitamente dichiarata da Irene Nemirovski ne I falò d’autunno. La Nemirovski è giunta recentemente alla ribalta, a una settantina d’anni dalla sua fine, per Suite Francese, affresco collettivo sull’occupazione nazista della Franca durante la Seconda Guerra Mondiale. I Falò d’Autunno ne costituisce quasi l’antecedente: la vita delle donne e degli uomini è determinata fatalmente dagli eventi della Grande Guerra.

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Un giovane viene cancellato da un’esplosione durante un salvataggio che altrimenti lo avrebbe reso un eroe, la moglie di innamora e si risposta con un ex-soldato disinnamorato della vita, il quale colleziona un errore dopo l’altro. Riacquistando la propria umanità, l’unico sentimento che conosce è la sofferenza. Interessante è anche la denuncia dell’autrice nei confronti del governo francese, i cui collaboratori, ormai animati soltanto dalla foga di guadagno, sarebbero i veri responsabili dell’inadeguatezza dell’esercito nel contrastare i nazisti trent’anni dopo.

Recentemente è arrivato Hemingway: non è un peccato non aver mai letto niente scritto da quest’uomo che, dicono, fosse così simpatico?

Addio alle armi mi sembrava un titolo strano: eppure è di questo che racconta. Di una ferita, di una ritirata, di un lungo addio. La narrazione asciutta di Hemingway è cinematografica ed in qualche modo ricorda il taglio dei romanzi di Joseph Roth ed Irene Nemirovski: ogni parola è data, che sia farfalla o sia mitragliatrice. Il protagonista di Addio alle armi narra dell’uomo reso sterile dalla guerra.

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Quegli amici e compagni che non vedrà più, quell’uniforme stracciata, quel paese da cui fuggire e la morte senza funerale. L’addio che ne consegue è paradossale, tardivo: l’uomo cerca di accomiatarsi da ciò che è già mutato in una statua di pietra.

Ci sono poche formalità da imparare da questi libri, che non sono commemorazioni, ma racconti di persone che cento anni fa erano vive. Tuttavia, a volte il racconto è così orribile che è necessario fermarsi per fare una pausa. Se c’è un senso nel leggere questi libri, forse è nel cercare di immaginare come stanno quelli che oggi stanno vivendo situazioni simili, penso a chi è rimasto senza punti di riferimento in Ucraina, Medio Oriente, circondato da fronti di combattimento. Buonista? Vorrei che si dicesse “naturale”.

 

Elizabeth Barrett Browning #profilo letterario

Elizabeth Barrett Browning #profilo letterario

Italiani che fuggono nel Regno Unito, Camden Town presa d’assalto da passeggiatori italiani, strade anglofone pullulanti di insegne alla belpaese, camerieri che ti rispondono nel tuo stesso dialetto (dopo che ti eri tanto impegnato a sfoggiare il tuo british!)…

Basta!

Se sei stanco della fuga dei cervelli, è ora di cambiare storia – così, per gioco.

Per gioco, potremmo immaginare che gli inglesi fuggano in Italia, un risuonare di “sorry!” sul sagrato di Santa Croce a Firenze, romanzi tascabili in lingua inglese dimenticati sui sedili dell’autobus, un coinquilino che beve una tazza di black tea, accompagnato da un pezzo di torta alle cinque del pomeriggio…

In effetti, nel tempo che fu l’Italia fu un luogo di fuga per inglesi romantici e scavezzacollo. Se ne contano innumerevoli: Shelley, Byron, Charles Dickens, John Keats – soltanto per nominare alcuni dei più famosi.

Tra loro, vi è un’inglesina molto speciale, Elizabeth Barrett Browning, che visse, scrisse e figliò a Firenze, dopo aver vissuto una vita intensa nel paese natale. Elizabeth nasce in una famiglia possidente nel 1806 e nell’infanzia alterna la classica cavalcata sul pony all’erudizione. A otto anni studia il greco antico, legge i poemi di Omero. Si dà all’epica, oltre che all’ippica. Durante questi teneri anni, la sua salute comincia a incrinarsi: le costanti saranno dolore, debolezza muscolare e dipendenza da antidolorifici (laudano e morfina). Malgrado ciò, espande le proprie letture ai temi politici attuali, come la rivendicazione dei diritti femminili e l’antischiavismo. Nel 1835, la famiglia è investita dal dissesto economico e abbandona il lusso campagnolo; si trasferisce a Londra, dove affitta una casa dopo l’altra prima di stabilirsi. Elizabeth conosce diverse personalità letterarie dell’epoca e ne diventa una anch’essa. Come se non bastasse, contrae una malattia polmonare, probabilmente tubercolosi. Nel 1844, la raccolta di “Poems” le regala il successo definitivo e le procura quello che sarà il personaggio decisivo dell’esistenza.

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Robert Browning, trentaduenne, le scrive, la incontra, la ama. I due si fidanzano e si sposano in segreto. Dulcis in fundo: fuggono in Italia. Elizabeth viene diseredata e la coppia si stabilisce a Firenze, nell’ora museo Casa Guidi, grazie al denaro guadagnato da Elizabeth.

Una vita ben avventurosa, per la figlia di un proprietario terriero in Jamaica, invalida, quasi moribonda fino alla fine. E da dove abbia tratto la forza… noi, lo sappiamo immaginare?

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Una settimana dopo l’8 marzo #editoriale

Sono trascorsi quasi 10 giorni dalla Festa della Donna e per dieci giorni sono ruzzolata sull’idea di scrivere un articolo sulla donna, sulla celebrazione della donna, sull’identità della donna, sulla vera finta storia che sta dietro all’otto marzo, sulle donne nella letteratura e altre fesserie.

L’unico risultato è stato un noioso flusso di coscienza che ha esitato in un elenco simile alla lista della spesa…

La donna è mobile. Hai freddo? Ciccia e brufoli. La figlia del capitano. Alle donne piace la cioccolata. La costola di Adamo. Dolce, strana, creatura. Hai il ciclo? Dolcemente complicate. Zitella e lunatica. Elena di Troia. Didone. Eva. La regina di Saba. Babi. Ho bisogno di tempo. Matilde sei mitica. Margherita (e il maestro). La lupa. Questa ragazza qui è un po’ acidella. Perché tu vali. Non sei portata per la matematica. Una stanza tutta per sé. Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori. Lady Chatterley. Chi dice donna dice guai. Prostituta. Santa. Dark lady. Deputata. Signorina. La donna baffuta. Cicciona. Ti agiti senza motivo. Anoressica. La mala femmena. Giulietta. La moglie ubriaca. Donne, tututu. La nonna Ace. Le donne hanno bisogno di amore per fare sesso. Mss Dalloway. Suocera. Mio peccato, mia anima. Salomè. Bellissima. Casa di bambola. Era solo un complimento. La mamma è sempre la mamma.

Mi sono chiesta che senso avesse questo sforzo e mi sono accorta che in quel momento non ne aveva alcuno. Stavo in qualche modo cercando di cogliere l’occasione per scrivere un pezzo su un argomento mostruosamente cliccato nel corso delle 24 ore tra le 23:59 del sette le 00:00 del nove marzo – cosa che normalmente non perdo l’occasione di fare. Cosa è andato storto?

Vorrei tralasciare la parte avuta dai miei impegni, tuttavia non la tralascerò, pur non scendendo nei dettagli.

La letteratura, le cronache, il gossip, le barzellette sono piene di donne, eppure nessuna di esse sono io. Non è una frase da slogan femminista, eppure è vero: nel mondo del “chi parla-scrive-filma” c’è un enorme sforzo di esemplificazione delle figura della donna. Il risultato è un moltiplicarsi di modelli, storie, caratteristiche fisiche la cui coerenza risulta alquanto impressionante.

L’arte del racconto e della raffigurazione ovviamente si rivolge anche agli uomini: eppure non ho mai la sensazione che ci sia un modello esplicativo divulgato dalle loro rappresentazioni. Per quanto la donna possa essere rappresentata dalla sua gonna o dalle sue tette, non ci accade di identificare l’uomo con i suoi pantaloni o il suo pene. La stessa cosa vale per il cervello: si ricorda Marie Curie per il suo gran cervello, eppure qualcuno ha mai provato interesse per come apparisse davvero? Avete mai googlato la foto di Marie Curie? Io stessa non l’ho mai fatto, anche se sono colpita dalle fotografie di Albert Einsten e Sigmund Freud: e non vedo il loro cervello, ma loro – come uomini.

La donna è penalizzata perché è una persona e allo stesso tempo un concetto astratto?

Lo si potrebbe sospettare, visto lo scarso interesse per quello che le donne oggi effettivamente fanno dalla mattina alla sera – e i loro problemi. Le stesse donne, europee ed italiane, spesso non sono consapevoli di appartenere ad una “categoria” che nel giro di 60 anni ha guadagnato il diritto di voto, al lavoro, all’istruzione, all’indipendenza personale ed economica. Parlando della mia generazione, la maggior parte di noi lavora (o è in cerca di un lavoro), studia, vive e viaggia da sola, si mantiene da sola o si batte per farlo, esattamente come gli uomini. Le differenze sono ormai ridotte all’osso, anche se all’emancipazione pratica nella vita quotidiana si affianca un tracollo dei valori tradizionali a cui è seguito un vuoto senza nome.

La donna è sempre la donna, quell’essere vulnerabile e fisicamente inferiore. Se incontra problemi, nella sua vita “da uomo”, perché sforzarsi di comprenderla?

Questo atteggiamento è subdolo nella nostra società, ma raggiunge picchi insopportabili in alcuni paesi a noi vicini, come la Turchia. Come abbiamo appreso dai giornali, una studentessa ventenne è stata uccisa dopo una violenza sessuale, una sera mentre tornava dall’Università. Ho letto in qualche racconto che l’aggressore avrebbe affermato che “una ragazza dovrebbe aspettarselo se sta per la strada dopo il tramonto”, o una formula equivalente. La risposta degli uomini turchi che hanno manifestato, indossando la minigonna, è stata forse quella più giusta e più umana che potesse essere data.

Una ragazza dovrebbe aspettarsi di rimanere disoccupata, se sceglie di andare a lavorare. Una ragazza dovrebbe aspettarsi di essere lasciata, se sceglie di andare a fare un master all’estero. Una ragazza dovrebbe aspettarsi di essere presa in giro, se sceglie di lavorare in un cantiere dove la maggior parte dei lavoratori sono uomini. Una ragazza dovrebbe aspettarsi di non farcela, se sceglie di fare cose da uomo.

Della serie “te la vuoi”.

Per questa volta, vorrei lasciare da parte la letteratura ed esprimere una riflessione a dieci giorni dall’otto marzo: attualmente, molte donne studiano o si formano fino ai venticinque anni, non programmano il matrimonio, non fanno dell’avere figli la propria priorità, dividono i lavori domestici con i loro partner oppure danno lavoro ad un’altra persona che sistemi la casa.

Nessun’uomo che si lancia nella carriera, si avvisa che potrebbe rimpiangere una famiglia, dei figli, una casa – mentre per la donna avviene il contrario, come se la famiglia, i figli, la casa facessero parte soltanto del suo repertorio.

Questa situazione sta cambiando: le coppie sono cambiate, l’accudimento dei figli è cambiato, il lavoro sta cambiando. Ma la testa, ma la testa, ma la testa no.

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